Come è nato ” Il Brogliaccio” di Rosilio (detto Marcello) Marcellini.

Intorno al 1962, ad Ancona, nell’ambito del Movimento Studenti di Azione Cattolica, si andò realizzando la formazione umana e religiosa di un gruppo di giovani che, sul piano sociologico, per i temi che andarono affrontando e come li andavano trattando, potremmo definire in prima approssimazione avessero connotati “di sinistra”: curiosi del prossimo e delle regole da adottare nelle relazioni umane.

Infatti una delle novità che distingueva quel Movimento rispetto ad esperienze precedenti, era che nell’accogliere studenti della fascia delle “superiori” non andavano formando gruppi di una sola scuola, ma li mischiava tutti insieme, senza distinzioni, né di sesso né di età, nelle iniziative che andava realizzando: incontri, dibattiti, cineforum, il giornaletto … il “quasimensile”, dal titolo “Il brogliaccio”.

Non era una iniziativa originale. Il Movimento Studenti esisteva già ad Ancona da qualche anno, ed era stato espressione di una generazione precedente di estrazione borghese, si suppone, perché poi era transitata quasi tutta in blocco verso la FUCI, facendo interrompere la continuità di quel Movimento.

Gli articoli de il Brogliaccio erano redatti per lo più da studenti dei due licei cittadini, il Classico, istituzione storica di indubbio prestigio, e l’altro, di più recente formazione, il Liceo scientifico, che andava realizzando in quegli anni la sua immagine innovativa. Ma vi parteciparono anche gli studenti del “Nautico”, una istituzione anch’essa storica in Ancona, ed altri vari Istituti tecnici. Alcune aderenti provenivano dalle Magistrali, anche quella una scuola che all’epoca godeva di un meritato prestigio.

Perché quel Movimento Studenti, in quella nuova stagione, fin dall’inizio, si andò formando come gruppo misto. Già per questo ulteriore aspetto del tutto innovativo per quei tempi, per di più in un ambiente connotato per radici religiose.

I partecipanti della rifondazione del ’62 condividevano, quantomeno istintivamente, l’idea antifascista. Occorre tuttavia notare che all’epoca, in Ancona, quelle vicende – il Fascismo, come la Sinistra Cristiana, la Resistenza ecc. -, erano il vecchio, il passato, il già sperimentato negativamente, il rimosso. Si pensava non ci fosse alcun motivo per resuscitarli. Persino i modelli correnti della DC e del PCI iniziavano ad essere considerati inadeguati, in esaurimento, al tramonto. Ma l’ambiente della Chiesa risentiva ancora di quel vecchiume. Quei giovani tendevano alla ricostruzione di un diverso tessuto sociale, inclusivo, rispetto a quello divisivo che aveva realizzato esiti così tragici e dolorosi, un modello meno conflittuale e maggiormente democratico perché nascente su una base comune di valori discussi e accettati.

Ebbe successo fin dall’inizio più perché diffondeva nelle scuole quel giornaletto autoprodotto, che parlava delle vicende dei diversi istituti scolastici, per lo più con ironia, ancor più per i cineforum, il cui accesso era gratuito, che per una chiara linea editoriale: tutti potevano dire e scrivere quel che volevano.

Quel movimento era netta minoranza sul piano numerico nel panorama studentesco dorico, quattro gatti, si potrebbe dire, minoranza netta anche per l’aspetto “cattolico”, anche se all’inizio non aveva una identità precisa, che andò acquistando solo piano alla volta nel tempo, ma in una città con poche o nessuna iniziativa alternativa, finì per lasciare trecce di sé.

La tradizione storica della società dorica è la frammentazione e la contrapposizione. Con l’Unità la borghesia che formava l’establishment s’era data un obiettivo minimo, che appariva sulla testata del primo quotidiano anconitano, diretto da Vittorio Vettori, “L’Ordine”. Mentre il fronte d’opposizione a quell’establishment si riconosceva nell’altra testata storica, dal nome ancora più emblematico, Il Lucifero.

Con questa tradizione culturale alle spalle quel Movimento Studenti di Azione Cattolica dei primi anni ‘60 esprimeva un disagio sia verso l’esperienza “interclassista” DC, benedetta dal clero locale, che verso quella ”classista” del PCI. Andava ricevendo impulsi nuovi, soprattutto perché s’era già realizzata dal 1958 una svolta radicale nel cattolicesimo. Il Conclave del ’58 aveva eletto papa Giovanni XXIII (28.10.1958 – 3.6.1963) e per il suo stile e impostazione dottrinale, così come per le sue vicende di presule nel mondo anche non cattolico, si presentava come una figura dialogante e possibilista del tutto diversa da quella ieratica e integralista del suo predecessore, una figura “umana”. La decisione poi di indire un Concilio per rimettere in discussione sul piano dottrinale l’esperienza pastorale cattolica dell’ultimo secolo, soprattutto correggere molti “errori dogmatici” attribuiti al Vaticano I, divise il clero cattolico, soprattutto quello italiano dai presuli di lingua tedesca. Le pronunce successive apparvero quindi da un lato attese, dall’altro sconcertanti, per l’establishment clericale nostrano addirittura rivoluzionarie: si prefigurava la nascita di un nuovo cristianesimo, per molti aspetti e molti argomenti già sviluppato in altri paesi europei. La circostanza se spaventava l’establishment, non poteva che incuriosire i giovani, per istinto sempre attirati dalle novità. Finirono per formare “un gruppo”, che, ove i singoli non la pensavano in modo simile su un argomento (avveniva quasi sempre), s’impegnavano a discuterne per sbrogliare quella matassa, fino a raggiungere una sintesi condivisa. Non ci fu bisogno di scrivere uno Statuto di regole, né di creare una gerarchia organizzativa. Comunque era un gruppo che tentava di vivere la vita consapevolmente e rigettava ogni tentativo di “ammaestramento” dall’alto. Preferivano sbagliare da soli.

L’input a quel metodo venne dato da un giovane prete, don Piero Nenci. Il “cosa occorresse fare” andò chiarendosi poco alla volta, giorno per giorno, incentrato sul “togliere” quanto non fosse essenziale, più che sull’aggiungere qualcosa di diverso alla tradizione storica cattolica o anticlericale della civiltà dorica.

 

Don Piero Nenci, fondatore del “Il Brogliaccio” di Ancona.

Quel prete tolse subito ogni rituale “pietistico”, ogni residuo di una chiesa “barocca” sovrabbondante di riti, o anche, di una “chiesa gesuitica” che esprimesse potere temporale. Rimase solo la messa in italiano. Volle realizzare a Vallemiano una piccola chiesa, di legno, senza riscaldamento, spoglia di ornamenti, con un altare verso i fedeli (uno dei primi), solo un crocifisso alle spalle, almeno all’inizio niente luminarie, niente fiori, niente figure di santi, niente candele per raccattare offerte. Affermava una catechesi della parola fondata sui punti interrogativi, sui dubbi. Non dava soluzioni, ma spunti perché ognuno potesse ricercare il “suo modo di fare” e, di conseguenza, fosse direttamente responsabile delle scelte che andava a compiere. Una chiesa attenta all’esperienza sacerdotale di un don Milani, che cercava di capire il fenomeno dei preti operi, che iniziò ad esplorare il mondo oltre il Conero con i problemi posti da Raoul Follereau sull’assistenza ai lebbrosi, o le problematiche della fame nel mondo, attenta anche alla crisi del comunismo che emergeva dalla “Rivoluzione culturale” di Mao Zedong, che abbandonava il comunismo staliniano della dittatura (burocratica) del proletariato.

Che io sappia, l’unica chiesa nella quale, durante la messa, la predica poteva diventare dialogo, i fedeli potevano intervenire ad aggiungere o togliere quanto andava dicendo quel prete. Ne derivava una continua improvvisazione. A volte idee fulminanti che facevano riflettere. Altre volte facevano nascere il rifiuto, per lo più rifiuto delle scelte ovvie, abitudinarie. Certo in tal modo la platea dei fedeli, non più solo platea, cambiò rapidamente … e i giovani iniziarono ad andare in chiesa per scelta propria.

Nella prassi missionaria don Piero puntò quindi su quei giovani che s’erano presentati spontaneamente, attirati “dal diverso” e li instradò verso il Movimento Studenti di Azione Cattolica, all’inizio non più di una decina di persone, ma già maschi e femmine insieme nelle “adunanze” settimanali, rompendo un tabù. Per “ascoltarli” più che per “convertirli”, rompendo un secondo tabù. Ai quali far toccare con mano che poteva esistere una chiesa essenziale, missionaria, attenta alle necessità della gente, non solo sul piano del singolo rapporto (la logica della carità), ma anche sul piano dello stabilire le regole di convivenza (la logica “politica” del “sistema sociale”). Una chiesa che “ascoltava” e “non imponeva” nessuna soluzione, non condannava e che, di conseguenza e necessariamente poteva produrre molte diverse “prassi” su cui riflettere, rompendo tanti altri tabù. La chiesa da loro stessi composta, l’ultimo essenziale tabù, la chiesa erano loro. Che loro “fossero chiesa” li stupiva e li responsabilizzava, li faceva sentire protagonisti.

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