Uno di quelli (del Brogliaccio).

Autore: Franco Patrignani (Redattore del Brogliaccio)

Quelli erano anni in cui si facevano mille cose. Ma noi non ce ne rendevamo conto.

Si discuteva, si passeggiava, certo e si chiacchierava, ma si partecipava a tante diverse attività: il quartiere, la Parrocchia, le Associazioni, i campeggi estivi, i doposcuola… e tutto questo ci sembrava normale.

L’Italia era appena uscita dal “boom economico”, ma noi non lo sapevamo.

E non sapevamo neppure che cosa fosse il boom economico.

Per noi che eravamo ragazzi nel 1966 -67, gli amici erano l’habitat naturale: ovunque ne trovavamo, sempre e non erano sempre gli stessi. E spesso c’era l’occasione per farne di nuovi.

I compagni di classe erano la nostra vera famiglia, del resto passavamo con loro, regolarmente almeno cinque ore al giorno… e con qualcuno di loro convivevamo anche dopo la scuola.

In casa stavamo un po’ di più di cinque ore, quasi il doppio, direi, ma almeno otto ne dormivamo.

La mamma era un servizio totale. Sul piano sociale garantiva la sopravvivenza di tutti. Sul piano istituzionale, riassumeva in sé i tre poteri: normativo, operativo e valutativo. Al babbo, al massimo erano affidate funzioni ministeriali: Lavoro/Finanze, Esteri, e poliziesche in senso stretto, tipo l’esecuzione delle sentenze e, quando necessario, l’applicazione di misure repressive generali.

Ma la mamma poi, ti perdonava… sempre e noi lo sapevamo.

Non so se io sarei capace di comportarmi come loro si sono comportati con me: mi hanno trasmesso il senso profondo dello spirito e dei comportamenti democratici.

Spesso, anche durante le maggiori litigate “ideologiche”, giurerei di aver visto affiorare qualcosa: un cenno di sorriso di compiacimento, un segno di inconfessata soddisfazione, appariva tra le pieghe di preoccupazione per il futuro di “voi idealisti”, come ci chiamavano loro.

I fratelli esistevano per comparazione: se avevano appena due anni più di noi, erano già dei vecchi, se ne avevano quattro di meno, erano solo dei fioli.

Tutte le età comprese in questo lasso, erano buone per discutere e, più tardi, per venire alle manifestazioni e ingrossare le nostre file…

In questo clima, il Brogliaccio.

Una cosa quasi misteriosa che, di tanto in tanto, appariva, improvvisamente, nei corridoi della scuola. Sempre irregolarmente.

Le cronache rischiavano di essere un po’ estemporanee, sfasate a volte, ma gli argomenti di fondo, erano assolutamente attuali e, addirittura, precorrevano i tempi, preannunciavano le sfide future.

Ma chi faceva parte del Brogliaccio? Più o meno lo si sapeva, ma non se ne parlava apertamente: sapevamo che era una cosa autogestita, ma non potevamo crederci fino in fondo: ci doveva essere qualche adulto che manovrava il tutto…

Allora, un po’ per curiosità e un po’ per quel gusto del mistero che attanaglia ogni giovane, ho finito col fare quel passo di lato che mi ha fatto uscire dalla routine e mi ha immesso in una dimensione nuova.

E il nuovo spazio era simbolizzato da quella stanzetta all’ultimo piano di un vecchio palazzo di Piazza del Papa, dove c’era odore di gesso e di polvere, ma dove entrava molta luce, sempre.

C’era una certa rotatività tra i partecipanti, e questo permetteva che circolassero sempre idee nuove. Il giornale, alla fine, diventava una specie di disciplina che permetteva di non disperdere queste belle energie.

Quando usciva, ogni numero era un po’ il collage di molti pezzi di esperienze che, prima di essere pubblicate sembrava che non fossero state veramente vissute.

E quindi quando finalmente avevamo in mano quel foglio quelle sei o otto pagine, di carta patinata, con l’odore di tipografia, era inevitabile che si andasse a leggere, prima di tutto il proprio pezzo. Per vedere se sembrava vero, in corpo 8, per capire se c’entrava qualcosa con le fotografie o i disegni che c’erano nella stessa pagina. E poi, con prudente curiosità, cominciavi a leggere anche le cose degli altri e ti “meravigliavi” della importanza delle loro riflessioni o della loro capacità di scriverle e di descrivere.

Partivi da te stesso e incontravi gli altri, quelli che frequentavi spesso e che, leggendoli, ti accorgevi che praticamente non conoscevi…

No non scrivevo per dire molto, scrivevo per dirmi, per vedere se le mie cose facevano una figura minimamente dignitosa, ma da questo (sano) narcisismo adolescenziale, dovevo presto uscire per riconoscermi con gli altri. Almeno con gli altri “miei colleghi della redazione”.

Nell’estate del 1966, ben due anni prima del 1968, ero ancora agli inizi, proprio agli inizi: arriva, in redazione una proposta di partecipazione ad una settimana di convegno del CISS (Centro Italiano Stampa Studentesca). Accettiamo di andare, con interesse e sfrontatezza, Mauro Barnabei ed io.

E così conosciamo, ma ancora troppo giovani e provinciali per capire e farci conoscere, le più belle figure della stampa democratica italiana e dell’impegno sociale che in quel tempo la caratterizzava: da Ettore Masina a Giampaolo Cresci da Ilario Favareto a Maurizio Carbognin…

Abbiamo capito che c’era un’Italia che pensava, che ragionava, che sperava e che si conosceva. Ma soprattutto abbiamo capito che noi eravamo un pezzetto di questa Italia, anche se non lo sapevamo.

Dal Brogliaccio, nel 1967 ho provato a fare il salto, ma non alternativo: ho tentato di collaborare con “il Corriere Adriatico”. All’epoca ero già un osservatore dell’attualità e il quotidiano dorico mi dava la possibilità di pubblicare nel giro di una settimana i miei brevi pezzi di cronaca e costume.

Portavo delle foto e degli articoli autocommissionati ad un redattore che mi accoglieva arcigno: sembrava sempre, chissà perché, che lo infastidissi. Però, mi pubblicava.

Poi ho continuato, nel tempo, a chiedermi che cosa ho da dire agli altri e come fare per farmi capire. E scrivere, quando ci riesco, è sempre un sollievo, per me. È un lavaggio nel profondo che, ogni volta mi libera e, contemporaneamente mette in evidenza altre cose nascoste dentro di me.

Per questo, oggi, mi sento grato al Brogliaccio: per queste cose che ho vissuto, compreso il ’68, che abbiamo fatto senza saperlo, ovviamente e che ad Ancona lo abbiamo fatto di più verso il 1969, se ricordo bene.

Il motivo della gratitudine? Ho potuto affrontare questi “passaggi” con una piccola comunità pensante dietro le spalle. E la dote di quelle esperienze mi ha sostenuto per molto tempo e per molti passaggi ancora.

Neanche questo, allora, lo sapevo. Ma oggi sì.

 

 

 

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