La democrazia moderna e la nascita dell’economia industriale.

Autore : Rosilio (Marcello) Marcellini, (Redattore de “Il Brogliaccio”).

1 – Riflessioni a-temporali sul vivere civile

Nelle mie riflessioni sul “vivere civile”, mi sono trovato a ricercare i perché delle tante “rotture sociali” verificatesi nella storia. Sono andato all’origine, alle radici remote, al XVIII secolo, l’età delle rivoluzioni, quando s’è realizzata la rottura con la cultura e le prassi del feudalesimo, entrando nell’età della democrazia e dell’economia industriale. Ma non ho individuato un fattore unico o prevalente che abbia trascinato a sovvertire lo “stato dell’arte” sociale di quel momento, se non un “bisogno” insoddisfatto o una “sofferenza” non più sopportabile.

Da lì una serie continua di “fratture” sociali per tutto il XIX ed il XX secolo. Dalla seconda metà del XX secolo non ci sono state più guerre, almeno da noi in Europa. Sarà perché si siamo uniti invece di rimanere divisi da frontiere?

Perché se ci guardiamo attorno sull’orizzonte planetario ci accorgiamo che la guerra non s’è zittita mai. Le fratture sociali neanche: mi sono concentrato soprattutto sulla rottura sociale fatta registrare da noi nel ’68 ().

Soprattutto quella, perché l’ho vissuta personalmente ad Ancona, nel Movimento Studenti di Azione Cattolica, scrivendo su “Il Brogliaccio” dalla prima metà degli anni ’60; poi a Firenze

1 – Che nei miei appunti di cronologia degli eventi ho simboleggiato così: .

negli ultimi anni dell’Università che mi laureò in Scienze Politiche e Sociali; ancor più negli anni successivi al 1970 a Milano, lavorando nell’area della gestione delle Risorse Umane e poi dell’Organizzazione industriale, iniziando in quella che era, all’epoca, la più importante e avanzata società industriale europea di telecomunicazioni.

Allora cambiavano gli assetti dell’economia, ma infuriavano “brigatisti” di vario colore politico, evidente sintono che la “rottura sociale” () del ’68 s’era aggravata, certo non risolta.

Ma soprattutto perché, cinquant’anni dopo, molti sintomi denunciano che quella frattura non è stata ancora del tutto sanata per passare oltre, ma le cause persistono: non si è riusciti ancora a generare una “sintesi” da cui poter ripartire con modalità nuove per migliorare la “sociabilità”. N’è sintomo di questa persistenza persino il fenomeno del brigatismo dai vari colori politici che, seppure sempre più marginale, persiste, si chiami Movimento dei forconi” o fedeli del dio Po, oppure No-TAV o aderenti alla religione della croce celtica … c’è una sempre forte tentazione a superare le regole democratiche ed usare la violenza.

Sono arrivato a concepire questa prolungata “rottura della convivenza civile” () come originata da plurimi fattori che hanno prodotto molte diverse forme di “disagio sociale”, per esclusione e/o per “egoismo individualista”, mancando volontà e lungimiranza per rimuoverli. In pratica, posso sintetizzare questo fallimento in un concetto: per carenze nella gestione della democrazia.

Anche alcuni storici sono convinti che continuiamo a vivere ancora oggi nella logica della crisi del ’68: non siamo riusciti nel frattempo a far assestare un diverso e più favorevole assetto della nostra convivenza civile. Infatti dal ’68 n’è derivato un processo lungo, che ancora dura da mezzo secolo, contraddittorio, combattuto da contrapposte identità, con non poche fasi che da evoluzione si sono trasformate in involuzione. Cerco i sintomi, diversi nel tempo: alcuni sono stati superati, mentre nuovi disagi si sono creati …

Per esempio, arrivando nel luglio 1971 a Milano da Ancona, transitando per alcuni anni per Firenze (già due mondi sociali molto diversi fra loro) potevo notare che: ad Ancona prevaleva ancora la “chiusura” dell’alta borghesia che gestiva l’economia ed il potere politico e anche della curia locale, restia all’innovazione conciliare indirizzata a superare le contrapposizioni classiste; a Firenze “l’apertura” al sociale già primeggiava, persino nel mondo cattolico, e non solo col pittoresco sindaco La Pira; a Milano all’inizio mi colpirono molto sfavorevolmente aspetti minori del vivere civile, ma significativi della prevalenza del fattore economico su quello politico e dei ritardi nell’innovazione per questo motivo accumulati:

  • da un lato l’inquinamento (lo smog) in cui stagnava l’atmosfera grigia-plumbea di quella città, che lasciava un dito di polvere nera accumularsi durante la notte sulla carrozzeria della mia “500”: evidentemente era una città da lungo tempo non amministrata con la necessaria lungimiranza sui cambiamenti strutturali che richiedeva il suo grande sviluppo industriale dopo la guerra, quantomeno era in ritardo su una corretta evoluzione;
  • il fatto che si dovesse cenare non più tardi delle 19 perché alle 21 le strade della città erano già pressoché vuote ed anche i ristoranti abbassavano le loro saracinesche (probabilmente perché i turni lavorativi ai quali era soggetta la grande maggioranza di quella popolazione, ancora prevalentemente operaia, iniziavano alle 6 del mattino) e, soprattutto, che la classe media era minoranza e quella agiata s’incontrava in altri luoghi, riservati;
  • dall’altro ancora i frequenti cartelli “non si affitta ai meridionali”, come, ancora oggi in molte altre città in tutt’Italia, “non si affitta agli extracomunitari”.
  • Milano era all’epoca una citta i cui abitanti avevano atteggiamenti asociali, mancava una identità condivisa, erano stratificati in ceti ripiegati su sé stessi; la “ricchezza” che proveniva dallo sviluppo industriale del dopoguerra andava assottigliandosi; ognuno viveva per sé quel disagio; l’altro, anche se conosciuto, era visto come un probabile nemico o concorrente; c’era molta competitività.

La capitale economica del nostro paese era in ritardo nel capire il da farsi, come e cosa andasse innovato, nonostante già allora fosse insieme a Torino ed a Genova la “locomotiva” che aveva trainato e ancora trainava l’economia del Paese ed avesse sviluppato ben quattro prestigiose Università (il Politecnico, la Statale, la Cattolica e la Bocconi) e fosse anche un notevole centro culturale con lo sviluppo dell’editoria, del giornalismo, del teatro lirico e di quello di prosa, un importante polo museale e dotato di tante biblioteche.

Forse proprio per questo alcuni fattori della sociabilità avevano distanziato chi poteva, capiva la necessità e voleva innovare da chi non poteva e/o nemmeno ne sentiva la necessità in una società che non aveva cercato più il luogo e l’occasione per il confronto democratico. Negli anni s’era andata formando una diversa stratificazione/divaricazione “classista” rispetto a quella storica fra chi aveva accumulato capitali e chi era rimasto proletario, non mediata a sufficienza da una politica sedicente “interclassista” democristiana, disinteressata agli aspetti culturali poco attiva sulle questioni sociali e interessata soprattutto ai risvolti economici, non solo per trarne un qualche profitto elettorale.

  • Mi colpirono sfavorevolmente anche le relazioni di lavoro, basate sul concetto autoritario di acritici “dipendenti” dalla volontà del “padrone”. Prevaleva una cultura d’impresa ancora molto lontana dal concepire il lavoratore come “risorsa umana” da valorizzare, al quale far conoscere e partecipare allo sviluppo del business, potendo dire la loro. Figuriamoci a concepire lo sviluppo del business secondo “metodi” di comportamento e di organizzazione logici ed oggettivi come le “norme” (UNI-EN-ISO) prodotti da studi internazionali approfonditi ai quali riferirsi, gestibili da professionisti specializzati, che proprio per questo da noi erano in uggia al “padrone”, perché “solo lui sapeva cosa occorresse fare, perché aveva fatto i dané, l’unica misura del successo allora socialmente vigente”, metodi “tecnico-organizzativi-informatici” ancora oggi poco e mal praticati.

Notai fin d’allora la distanza che esisteva nella “gestione del personale e nell’organizzazione d’impresa” fra la cultura industriale giapponese, ma anche tedesca, e quella nostrana, nonostante tutte ripartissero da “zero” dopo una guerra disastrosamente persa e un retroterra culturale e sociologico “fascista”.

  • Ma colsi sfavorevolmente anche il ritardo “culturale e professionale” dei sindacati, incapaci ancor più dei “padroni” di capire e ricercare come stesse cambiando il mondo dell’economia e, di conseguenza, come dovessero adeguarsi le relazioni di lavoro, col risultato di “buttare in cagnara politica” la ricerca della soluzione ai disagi dei lavoratori.

In una società che cambiava per fattori che non eravamo in grado di governare, per molti aspetti non dipendevano dalla nostra volontà, a volte neanche eravamo in grado di conoscere/capire, c’era chi ne era stato favorito e chi sfavorito, chi s’adattava al cambiamento chiedendosi “perché?”, e chi lo rifiutava, chi lo promuoveva e chi lo combatteva, chi lo distorceva a propri fini politici o clientelari.

  • Per es. mi colpirono in quei primi anni a Milano le posizioni para-massoniche, adottate da Comunione e Liberazione di don Giussani, per combattere i “nemici” della Chiesa (evidentemente un pretesto per agganciare i neofiti a quella fede dell’immanente), che cozzavano con il clima di apertura sociale post-conciliare che ancora sopravviveva (ma andava esaurendosi) durante il pontificato di Paolo VI. Era altro dall’idea di democrazia. La fede religiosa ed il modo di esprimerla centravano poco in quell’organizzazione sedicente cattolica così elitaria, così ghettizzata, così diretta con modalità autoritarie e verticistiche, sulla base della logica dell’indottrinamento piuttosto che sul censimento dei problemi e sullo studio delle soluzioni per poter trarre da questo processo la formazione e l’esperienza necessarie per migliorare. L’obiettivo vero era di sviluppare nuove forme di potere temporale della Chiesa. Infatti quell’esperienza è naufragata malamente nella corruzione per conquistare e mantenere il potere politico e gestire il sottobosco affaristico dei servizi e delle commesse pubbliche ().

Ma non era solo una parte del mondo cattolico a chiudersi in sé stesso ghettizzandosi. C’era anche chi localmente strumentalizzava l’appartenenza ad una qualche potente lobby politica per farsi solutore (solo per propaganda, più spesso per clientelismo) dei disagi della gente, come per anni le varie correnti della D.C. il cui crollo è registrato all’inizio degli anni ’80; e con modalità ancora più professionali, sfacciate ed efficaci i socialisti craxiani che vennero dopo. L’onestà intellettuale era diventata merce rara!

Per tutti gli eredi della D.C., chi non aveva la loro “identità” e non si prestava a restituire l’aiuto clientelare che erano in grado di erogare, era un nemico da combattere, altro che la logica della “democrazia”, era la logica della “appartenenza” e del “consociativismo”!

In quegli anni l’apertura al nuovo senza tradire i principi democratici la fece registrare pressoché il solo Berlinguer, neppure seguito da tutto il PCI.

C’erano anche quelli che mettevano le bombe, o colpivano personaggi simbolo della vita civile, ma erano solo “ragazzi” molto disagiati e molto disperati, del tutto dissociati dalla realtà, senza soluzioni ai loro disagi, distruggevano ma non erano capaci di costruire alcunché, infatti scomparvero per esaurimento senza lasciare alcuna “eredità”, con l’eccezione degli anarchici che si agitano da più di un secolo e ancora non si sono espressi in una soluzione accettabile dei loro disagi. C’erano anche e ci sono ancora, sempre più isolati ed estranei agli sviluppi sociali indotti dalla globalizzazione, i nostalgici del “ducismo”: l’eroe volitivo che s’afferma per la forza della sua volontà. Tutto il resto non conta è solo pretesto! … il come, il perché, per quali obiettivi …

Cfr.  Sandro Bianchi e Angelo Turchini – Gli estremisti di centro. Il neo-integralismo cattolico degli anni '70: Comunione e
Liberazione – Guaraldi, Firenze, 1975;  Gustavo Guizzardi e altri – "Religione e politica: Il caso italiano" – Coines, Roma, 1976; 
Franco Ottaviano – Gli estremisti bianchi – Data News, 1986;  Gordon Urquhart – Le armate del Papa. Focolarini, Neocatecumenali,
Comunione e Liberazione. I segreti delle misteriose e potenti nuove sette cattoliche" – Ponte alle Grazie, Firenze, 1996;  Ferruccio
Pinotti e Giovanni Viafora – La lobby di Dio – Fede, affari e politica" – Chiarelettere 2010; Enrico De Alessandri – Comunione e
Liberazione: assalto al potere in Lombardia – Bepress, Lecce 2010.

Di fatto sono spariti anche i “liberali”, che hanno perso l’ideologia d’origine “liberale” appunto, assorbiti nel consociativismo berlusconiano.

  1. (M.). M./23 luglio 2019

2 – Riflessioni a-temporali sul vivere civile cinquant’anni dopo il ‘68

Ho un “interesse” a capire cosa stia cambiando nelle società, soprattutto nel mondo globalizzato, ma l’esperienza lavorativa mi ha fatto apprezzare un principio enunciato da Socrate: “so di non sapere”, devo cercare informazioni, quando le trovo le devo trattare con approccio critico, devo arrivare a creare sintesi logiche, documentate, sempre meno ideologiche.

Quindi, per non sbagliare giudizi e decisioni mi faccio domande e cerco risposte … continuamente … e nei miei studi adotto l’approccio critico. Cerco soprattutto di individuare e liberarmi dai pre-giudizi miei e da quelli degli storici e, in genere, degli intellettuali contemporanei che vado consultando. I pregiudizi miei sono tutti attribuibili alla mia ignoranza, per questo mi chiedo “perché?” si sono realizzati gli eventi in cui mi imbatto. Quelli degli storici sono in genere pregiudizi ideologici o metodologici o di appartenenza a “scuole” dal pensiero prevalente e preimpostato, aspetti che vanno fatti emergere.

Per trovare l’obiettività del racconto, che, per esempio ho riscontrato nella monumentale opera di Adolphe Thiers, occorre smontare e ancora smontare e non stancarsi di smontare i racconti che via via si vanno leggendo nelle fonti, con metodo (chi fa, cosa fa, dove lo fa, come lo fa, perché lo fa, quando lo fa, da chi riceve l’input di fare, cosa produce, a chi fornisce il prodotto del suo fare, cos’è questo prodotto …), per poi rimontare il tutto ed inquadrarlo all’interno dello “scenario di riferimento”, che non poco influisce sui “perché?”. Occorre soprattutto seguire l’intuizione di Hegel sul “processo” che governa l’umanità (tesiantitesisintesi/tesi) per riuscire a comprendere come cambia la società umana, o come dovrebbe.

Per deformazione professionale, a differenza di Socrate, per realizzare questi processi di smontaggio e rimontaggio e poi di collocazione dell’evento analizzato nel suo contesto (per tutti gli aspetti) di riferimento, adotto uno specifico metodo di “analisi dei processi” per cercare di scoprire quel che non conosco () e la novità l’annoto come “errore” che rende inefficiente il processo di innovazione e lo trasforma in involuzione (). Cerco così di individuare per tempo i fattori che possono produrre i “cambiamenti”, rovinosi o evolutivi o involutivi, e le frattura radicali () nel vivere civile (= sociabilità ).

Con questo metodo ho analizzato gli eventi dell’ultimo mezzo secolo e sono arrivato alla conclusione che la stagione del ’68 non l’abbiamo ancora del tutto superata. Ancora oggi possiamo registrare da un lato disagi e dall’altro ghettizzazioni, tentazioni a ricostruire una società socialmente sempre più stratificata per diversi fattori di distinzione: ancora non siamo riusciti a praticare un corretto modello di gestione della democrazia.

Stiamo ancora pagando per questo malgoverno gli interessi per l’enorme debito pubblico che ha iniziato ad accumularsi in quegli anni della “Milano da bere”, che forse aveva intuito la necessità del cambiamento, ma non è riuscita a gestirlo se non facendo ancora più debiti con pratiche clientelari. Oggi qualcuno pensa addirittura di replicare quella ricetta demagogica e populista senza curarsi delle conseguenze! Come se il nostro paese e la nostra economia non fossero immerse nel resto del mondo e potessero vivere tagliando tutte le relazioni.

3 – Questo metodo di analisi s’ispira liberamente ai 14 principi del Toyota Way che induce ad
“imparare dagli errori”.

Quella del ’68 è stata un’età, che ancora non s’è conclusa, che ha segnato l’inizio della decadenza della “grande industria” – pubblica e privata -, che si era enormemente sviluppata nel primo dopoguerra all’epoca della terza rivoluzione industriale – l’epoca del neo-fordismo – processo economico evolutivo alla base del disagio sociale degli esclusi del ’68; stagione di sviluppo ma poi aveva fallito nel non prevedere la necessità dell’innovazione continua, addirittura nel rifiutare l’evoluzione innovativa per ricercare altri modelli di sviluppo, perché: “stiamo guadagnando! Perché cambiare?”. Ma quando iniziarono a non guadagnare era già tardi per avviare il cambiamento. Per questo abbiamo moltissime piccole/medie aziende e nessuna grande azienda che goda nel mondo di una qualche leadership, pur essendo la settima economia manifatturiera al mondo.

Sono andato indietro nel tempo per trovare conferme a questo processo pieno di sbandamenti. Ho constatato che molti “eventi” possono essere classificati di evoluzione in atto della sociabilità ma anche di involuzione (), come mi pare stia accadendo nell’oggi coll’aspirazione dell’odierno populismo al ritorno a “regole” consociative del passato, a far prevalere i “no” rigoristi rassicuranti ai “si” che contemplano un qualche rischio progettuale (meglio l’immobilismo!), o accettare i “si” senza alcun serio progetto di fattibilità. Pressoché tutti i populisti ed i sovranisti cercano piuttosto a rinchiudersi nel ghetto dell’appartenenza, a differenza dell’inizio del ’68, che ad Ancona ho sicuramente vissuto come un cambiamento alla ricerca di nuove “regole” per una convivenza civile più avanzata, aperta e accogliente verso chi era diverso, dare voce a chi non aveva mai avuto l’opportunità di esprimere un suo pensiero (giusto o sbagliato che fosse).

Questa logica s’è sviluppata fin dall’epoca che ho chiamato “Età delle rivoluzioni” (1740 ): ad una società civile che seguiva regole che possono essere identificate coll’istituzione del “Sacro Romano Impero” (per esempio una società stratificata in “classi sociali” con diritti/doveri diversi fra loro, l’accesso al potere per ereditarietà, la Chiesa che esercitava un potere temporale “aristocratico” …), con regole di gestione stabilite da secoli, e che rendeva quella società immobile in quella tradizione. L’evento simbolo della scoperta dell’America ha fatto compiere una svolta epocale. Quell’evento, inizio dell’età delle scoperte geografiche, ha comportato uno sviluppo successivo promosso dalla cultura (illuminismo) e dall’economia (prima rivoluzione industriale) della politica (parlamentarismo, costituzionalismo …) che ha prodotto innovazioni nelle regole sociali che cozzavano con le regole del feudalesimo (per es. l’uguaglianza di tutti i “cittadini” davanti alla legge).

Hegel ha intuito la logica di quel processo che produce “innovazioni” in progress (tesiantitesisintesi/tesi), ma non ha intuito che il ritardo nell’innovazione poteva comportare far crescere il “disagio sociale” che può risultare il sintomo dell’involuzione del processo di miglioramento continuo (tesiantitesisintesitesi)fino alla rottura traumatica che è stata registrata nell’età delle rivoluzioni. Poi, dopo il 1814, si è tentato gradualmente e non senza contraddizioni (vedi il Congresso di Vienna) di riprendere ad innovare nell’equilibrio sociale, senza che la democrazia potesse trionfare; era diventato uno dei fattori che produceva disagio sociale. Di qui non poche rotture rivoluzionarie nel corso di quel secolo, che venivano recuperate man mano che si sviluppavano i principi culturali della sociabilità e l’economia riusciva ad abbandonare la pratica dell’ “assalto ai forni del pane” per sopravvivere.

Il “come fare” il completamento della svolta è diventato il principio della democrazia: s’individua il problema “allo stato dell’arte”, lo analizzano tutti i rappresentanti della popolazione nei Parlamenti anche alla luce dei principi costituzionali fondamentali, si trova la soluzione condivisa e poi si controlla che sia adeguatamente applicata, secondo il processo reiterato intuito da Hegel. Mancava però il “misuratore” dello sviluppo/involuzione del benessere/malessere sociale, e lo si è trovato nel concetto di “sociabilità”.

Sono arrivato ad accettare la tesi formulata e condivisa da molti storici che l’incipit dei cambiamenti risieda soprattutto nei fattori della “cultura” (nella quale includo anche gli aspetti religiosi); della “economia” in grado di mobilitare gli interessi individuali; della qualità delle regole dello stare insieme che riguardano soprattutto la gestione della politica: della corretta loro applicazione o “sociabilità” (di qui il necessario ricambio democratico della gestione politica); della qualità di gestione delleinnovazioni” (il migliorare per tutti gli aspetti).

Sono quattro fattori che, lasciati alla casualità o all’improvvisazione, delegano di fatto tutte le responsabilità al motore degli “interessi” individuali per svilupparsi. Interessi positivi anche e soprattutto quando sono culturali, le curiosità …, anche se producono risultati individuali, non sempre di “sistema”, possono essere d’aiuto per spingere ad innovare, in spazi nuovi (gli esempi storici recenti di Adriano Olivetti, di Natalia Ginzburg, di Enrico Mattei, di Giulio Natta, di Carlo Rubbia, di Emilio Segrè, di Antonino Zichichi, di Renato Dulbecco, di Rita Levi-Montalcini …). Tuttavia non raggiungono quasi mai traguardi che consentano il “non ritorno indietro”. Si vedano a questo proposito le storie regressive dell’Olivetti, della Pirelli, di pressoché tutta la siderurgia, dell’IRI, della STET e dell’ENI e di tante altre importanti “società”. Se si usa il motore dell’interesse economico, se non regolato da un opportuno “spartito”, si corre il rischio di cadere nella speculazione e nell’involuzione della sociabilità (l’esempio è quello delle crisi bancarie degli ultimi anni a danno dei risparmiatori e dei clienti).

Ma innovare in assenza di regole per gestire il cambiamento, può anche produrre “disagi sociali” ancora maggiori, complessi, non gestibili, che ne conseguono a danno dei ritardatari … come nel ’68 per l’alta borghesia liberale nel non accettare il processo di democratizzazione o per coloro legati all’economa agricola che stava precipitando per le modalità con le quali veniva praticata, come per la Grecia più recentemente ove prevaleva l’immobilismo sociale, come sta avvenendo gradualmente per la Turchia e perfino il ritorno al medioevo per Israele e per il mondo islamico!

  1. (M.). M./23 luglio 2019

3 – Riflessioni a-temporali sul sociale di domani

Ci siamo trascinati per mezzo secolo tra una crisi e l’altra. Le situazioni negative perdureranno con la gestione della politica dominate da populismo e sovranismo, peraltro logicamente contrapposti per gli ideali che li identificano, eppure politicamente alleati. Anzi, sarà ancora una situazione di crisi peggiore, che avanzerà veloce in modo disastroso – temo per tutti noi – con lo sviluppo di “Industry 4.0” che richiede l’adozione della “logica dell’orchestra” () certo non il ripiegamento nazionalista, logica e pratica alla quale siamo impreparati e molto lontani sul piano della “cultura sociale”, tantomeno nella “organizzazione industriale”, anche perché, ci si chiede, se la singola industria già fatica a regolare e ottimizzare i suoi processi interni, chi e quanti saranno in grado di redigere oggi uno “spartito” che tenga insieme tante diverse imprese nel traguardare un obiettivo comune?

Per di più partendo dallo “stato dell’arte” dell’individualismo che connota la nostra società, per non parlare della criminalità economica che ogni anno incide per un valore poco più di ¼ del nostro debito pubblico nel nascondere le risorse che potrebbero risanare in breve tempo il nostro storico indebitamento?

E seppure si riesca a redigere questo spartito, chi ha l’autorità sufficiente per farlo adottare: si veda l’esperienza fallita dei “distretti industriali” che poteva essere l’inizio della scrittura di un qualche “spartito”, nella logica dell’azienda “a rete”? Questo è il nuovo tema che angustia l’età della globalizzazione: come applicare principi democratici nella gestione dell’economia, per di più in un’economia globalizzata?

Questa riflessione mi ha indotto ad adottare come “bussola” del cambiamento, il concetto di “Sociabilità” () per leggere la storia e “imparare dagli errori, ”strumento per prevenire il nascere e l’incancrenirsi dei “disagi”, per passare dal rischio di rottura () all’evoluzione continua () per tutti gli aspetti (la logica “impariamo dagli errori”, che per farla funzionare ha bisogno di collezionare gli “errori” e discuterne fino a trovare la soluzione = democrazia), utile per stabilire l’input per lo sviluppo di “regole evolutive” (lo spartito) in luogo di “regole repressive” (la punizione a danno accertato). Democrazia non solo formale, democrazia applicata in ogni ambito e livello sociale. Ma l’idea di democrazia trova spunti e limiti nell’idea di Costituzione: se si deve applicare a tanti livelli occorreranno molte “costituzioni”, che per essere democratiche non possono contraddirsi vicendevolmente. Non è un processo innovativo facile da realizzare, occorre tempo, esperienza e la logica di “impariamo dagli errori”.

Questo termine “sociabilità”, di antica origine (e, nella forma latina – sociabilitas – d’illustre tradizione nelle dottrine sociali delle chiese cristiane) si è affermato nel lessico sociologico contemporaneo, in luogo di “socialità” e “associazione”, per designare sia la disposizione generica degli esseri umani a stabilire con gli altri un qualche tipo direlazione sociale” – a seconda dei casi spontanea o organizzata, solidale o conflittuale, strumentale o di per sé gratificante ecc. – sia le molteplici manifestazioni concrete di tale disposizione sotto forma di gruppo, associazione, comunità, massa, sulla base di determinati tipi dibisogno” e di interesse”. Pensare che per realizzare questo tipo di democrazia evolutiva nell’impresa industriale (non lo si è tentato nelle strutture che gestiscono la società civile) si è cercato di redigere e applicare regole codificate (per es. le UNI-EN-ISO) che all’atto pratico si sono ridotte al commercio delle certificazioni. Ma quelle regole possono ben essere utilizzate fregandosene dei risvolti affaristici dei certificatori, puntando sulla qualità sempre avanzante () dei processi dell’organizzazione aziendale apprezzata dal cliente.

Tutti i singoli e diversi strumenti devono operare nella logica organizzativa stabilita in un qualche
“spartito”.
6 – Che ho simboleggiato così: .

Rispetto a “socialità”, “sociabilità” vuol essere privo di connotazioni valutative ideologiche, si associa bene ai 14 principi del “Toyota Way”, la misura è il risultato: evolutivo o involutivo? Un buon risultato statico deve preoccupare ().

Rispetto ad “associazione”, è più preciso e comprensivo. Quest’ultimo termine infatti designa solo i processi associativi, di avvicinamento tra due soggetti, mentre “sociabilità” include anche quelli dissociativi, di separazione o di distanziamento. Altri termini si sono diffusi con un significato del tutto diverso ().

Questo tema del cambiamento della “sociabilità” in atto è molto attuale all’inizio del XXI secolo … Per esempio, dal 2011 ha iniziato a realizzarsi concretamente in Germania la svolta che si prevede risulterà epocale di “Industry 4.0” (e noi, che in maggioranza svolgiamo un ruolo di “terzisti” dell’industria tedesca, già siamo in grave ritardo anche solo nel conoscere che cosa sia, quali implicazioni comporti nel nostro modo di produrre … nonostante gli sforzi divulgativi di Confindustria). Occorre, prima di tutto correggere un equivoco: Industry 4.0 non risiede unicamente o prevalentemente nella robotizzazione dei processi lavorativi (), ma, soprattutto, in un nuovo modo di organizzare l’industria in funzione di una precisa scelta strategica che nasce dalla conoscenza sempre più approfondita del “mercato di riferimento” in uno scenario globalizzato e nel razionalizzare i passaggi di servizio fra soggetti diversi lungo la “catena del valore”.

7 – Per prendere un caso estremo, la guerra, considerata l’opposto della socialità, rientra invece fra le
manifestazioni della “sociabilità”.
8 – Cfr. Luciano Gallino – Dizionario di Sociologia – 3 voll., De Agostini, Novara 2006, voce nel vol. II, pp. 384-385. Bibliografia su
questo specifico aspetto della sociologia:
 R. Amirou – Sociability/”Sociality” – in Current Sociology/La sociologia contemporanea, XXXVII (n. 1), 1989.
 C.H. Cooley – Human Nature and the Social Order – New York 1964 IV (Chicago, 1902).
 M. Forsé – La Sociabilité – in Année Sociologique, XXX (1979-1980).
 E. Goffman – Relazioni in pubblico. Micro-studi sull’ordine pubblico – Milano 1981 (New York, 1971).
 S. Gurvitch – La vocazione attuale della sociologia – Bologna 1965 (Parigi, 1963 III ).
 M. Scheler – Essenza e forme della simpatia – Roma 1980 (Lipsia, 1923).
 G. Simmel – Sociologia – Milano 1989 (Berlino, 1908).
 C.J. Uhlaner – “Relational Good” and Partecipation, Incorporating Sociability into a Theory of Relational Action – in Public Choice,
LXII (n. 3), 1989.

9 – La capacità di un robot di produrre con velocità e precisione, ma anche con flessibilità, 24 ore su 24, di
per sé avrebbe risultati anti-sociali. Si ripeterebbe con aspetti ancora più devastanti il passaggio epocale
dalla II rivoluzione industriale (il taylorismo) alla III rivoluzione (il fordismo della standardizzazione) che
produsse in America la storica crisi sociale. Ma non si può vietare l’uso di una modalità di produrre che

La robotizzazione di processi lavorativi senza l’adozione di un modello di “conoscenza sul da farsi”, l’obiettivo strategico da conseguire, rischia di aumentare i costi di produzione, fa crescere il volume dei magazzini e gli sprechi perché i robot sono molto produttivi, ma non si preoccupano della vendita dei prodotti, si rischia una maggiore produttività che fa perdere competitività. La capacità di farlo, con un modello organizzativo maggiormente complesso che deve anche risultare flessibile, diventa fattore di identità e di vantaggio competitivo. Vanno a sparire le attività attualmente volte da lavoratori specializzati, sostituite dal lavoro dei robot, ma crescono le attività professionali più elevate dei lavoratori che devono promuovere, gestire, controllare il processo. I risvolti sociali anche loro possono produrre disagi se non gestiti opportunamente. Ho schematizzato per macro-fasi un processo di miglioramento continuo del processo interno ad una impresa tipo, nel quale ogni fase dipende dalla fase precedente e realizza quanto serve alla fase successiva, ma mi chiedo quanti siano quelle imprese che lo applicano e quanti avranno difficoltà a farlo se non si evolve anche lo scenario di riferimento dell’impresa?

La maggior parte delle nostre piccole/medie imprese si limitano a realizzare solo la fase 6, magari anche con una organizzazione approssimativa (assenza di programmazione, di registrazioni, di contabilità industriale); alcune adottano anche la fase 7; quasi nessuna la 8 (l’impariamo dagli errori), mentre Industry 4.0 le richiede tutte, è una rivoluzione tecnologico-digitale con ricadute rivoluzionarie sul piano organizzativo (tempi e metodi che vanno al di là della singola impresa, solo un anello nella “supply-chain”, prima e dopo quella di attività di altre imprese), nonché ricadute economiche e sociali fin nelle relazioni internazionali.

È ovvio che questi processi non possono essere gestiti unicamente dalla singola azienda, richiedono “spartiti” più ampi che possono realizzarsi con la contrattazione fra i soggetti interessati, ma richiedono anche lo sviluppo di specifiche norme di riferimento. Gli strumenti e la logica digitale stanno profondamente cambiando la “cultura” delle persone, con un ampliamento enorme del “conoscibile”, ma hanno anche un forte risvolto negativo che rischia di realizzare confusione, se è strumento privo, distorsivo e mal utilizzato da un non adeguato approccio critico e di capacità di sintesi.

Ne consegue che, per difendersi da queste complicazioni, piuttosto di cercare di evolvere innovando per aspetti evolutivi che fatica a concepire, c’è chi – sovranista/populista – preferisce ritornare al “nazionalismo” (prima gli americani, prima gli italiani, prima gli ungheresi ecc., tanto che gli interessi di chi proclama l’assolutismo del “prima” finiscono per collidere anche fra loro), con modalità involutive, adottando termini comunque divisivi, solo difensivi, miopi, che tendono a creare un nemico e a trovare sicurezze alzando frontiere, in uno scenario di riferimento globalizzato che induce invece a valutare non solo utile, ma anche ineluttabile e necessario, per garantire una sociabilità evolutiva, l’aggregazione e il superamento di ogni frontiera, l’inevitabile meticciamento che s’oppone alla cultura razzista. Fenomeno epocale, che va governato con lungimiranza, che certo non possiamo subire, ma che non possiamo negare che stia già in marcia, ignorandolo.

(riduce costi e tempi. Occorre quindi saper aggiungere una gestione opportuna di uno “spartito di regole” da
applicare.)

Nell’età che stiamo vivendo stanno cambiando le regole della “sociabilità” e ancora non è chiaro se come evoluzione o involuzione e con quali obiettivi da traguardare e, soprattutto, come realizzarli, perché, quando, chi deve fare che cosa, perché lo deve fare, … anche per questo hanno buon gioco sul fattore “cultura”, i “sovranismi ed i “populismi” che identificano, senza necessità di analisi e ragionamenti, soprattutto e quasi solo quelli che etichettano come i “nemici” che ci danneggerebbero e convincono una parte poco acculturata dell’opinione pubblica ad alzare “muri” per difenderci ghettizzandoci. Per loro la storia non è “maestra di vita”.

  1. (M.). M./23 luglio 2019

Release 2 – R. (M.). M./21 luglio 2019

[1] – Cfr. & Sandro Bianchi e Angelo Turchini – Gli estremisti di centro. Il neo-integralismo cattolico degli anni ’70: Comunione e Liberazione – Guaraldi, Firenze, 1975; & Gustavo Guizzardi e altri – “Religione e politica: Il caso italiano” – Coines, Roma, 1976; & Franco Ottaviano – Gli estremisti bianchi – Data News, 1986; & Gordon Urquhart – Le armate del Papa. Focolarini, Neocatecumenali, Comunione e Liberazione. I segreti delle misteriose e potenti nuove sette cattoliche” – Ponte alle Grazie, Firenze, 1996; & Ferruccio Pinotti e Giovanni Viafora – La lobby di Dio – Fede, affari e politica” – Chiarelettere 2010; Enrico De Alessandri – Comunione e Liberazione: assalto al potere in Lombardia – Bepress, Lecce 2010.

[2]Per prendere un caso estremo, la guerra, considerata l’opposto della socialità, rientra invece fra le manifestazioni della “sociabilità”.

[3] – Cfr. Luciano Gallino – Dizionario di Sociologia – 3 voll., De Agostini, Novara 2006, voce nel vol. II, pp. 384-385. Bibliografia su questo specifico aspetto della sociologia:

  • Amirou – Sociability/”Sociality” – in Current Sociology/La sociologia contemporanea, XXXVII (n. 1), 1989.
  • H. Cooley – Human Nature and the Social Order – New York 1964IV (Chicago, 1902).
  • Forsé – La Sociabilité – in Année Sociologique, XXX (1979-1980).
  • Goffman – Relazioni in pubblico. Micro-studi sull’ordine pubblico – Milano 1981 (New York, 1971).
  • Gurvitch – La vocazione attuale della sociologia – Bologna 1965 (Parigi, 1963III).
  • Scheler – Essenza e forme della simpatia – Roma 1980 (Lipsia, 1923).
  • Simmel – Sociologia – Milano 1989 (Berlino, 1908).
  • J. Uhlaner – “Relational Good” and Partecipation, Incorporating Sociability into a Theory of Relational Action – in Public Choice, LXII (n. 3), 1989.

 

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