Ci stiamo forse avviando verso un nuovo ’68 ?

Autore: Rosilio ( Marcello) Marcellini (Redattore de “Il Brogliaccio”).

CORSI E RICORSI STORICI.

Nei miei studi di storia ho riscontrato che ogni “periodo storico” nasce da un disagio che impone il cambiamento degli assetti sociali e sfocia in una successiva crisi per lo sviluppo di nuovi e diversi disagi. Hegel aveva già intuito questa logica sul piano più generale colla sua “dialettica”: tesi antitesi sintesi/che diventa nuova tesi antitesi …

Mi sono chiesto: è questa la chiave di lettura per cercare di capire perché da qualche anno è iniziato un cambiamento strisciante della struttura sociale del nostro paese che sta creando molti disagi sociali? Mi sono anche chiesto: quali disagi questa volta? Come sta avvenendo la transizione? Cosa comporterà?

La prima impressione è che, nell’orizzonte del nostro Paese, si siano aggiunti nuovi disagi a vecchi disagi non risolti di una lontana stagione iniziata negli anni ’80 col passaggio della leadership dalla stagione democristiana a quella “laica” e, dall’altro lato, dello sfinimento della democrazia rappresentativa, come possiamo dedurre da alcune legislature osservando la crisi di tutti i partiti, la nascita di tanti “movimenti” alternativi ma anche effimeri, l’astensionismo degli elettori diventato maggioritario. Ma, guardando fuori del nostro Paese ci si accorge che non siamo soli. Si nota che dopo una stagione di “comunitarismo” per fortuna non ancora terminata nonostante la Brexit, che potrebbe portare l’Unione Europea ad essere formata da 35 Paesi, sta emergendo la ripresa della conflittualità fra quelle nazioni in nome del “sovranismo”, quasi avessero dimenticato quale immane sciagura sia la competizione in una realtà dimensionale che la rende comunque perdente o che da soli ciascuno è troppo piccolo per far fronte alle sfide globalizzate.

Forse lo sfinimento politico degli ultimi decenni – interno ed esterno al nostro Paese – non è la causa, ma solo uno dei sintomi di un disagio più ampio, culturale, potremmo dire, degli obiettivi che una moderna società deve proporsi? Oppure è derivante da un cambiamento dell’economia sempre più globalizzata?

  • Mi sono convinto che da non molti secoli, è decisivo nel determinare i cambiamenti sociali proprio l’andamento dell’economia, e nell’attuale tessuto sociale globalizzato emergerà dalla crisi chi saprà cavalcare l’innovazione dando ad essa obiettivi accettabili e profittevoli per tutti, perché vale sempre la regola antropologica del “primum vivere, deinde philosophare”.

L’attuale cumulo di disagi sembra dipendere dall’esplodere della crisi economica del 2008 in USA. Lei si è ripresa abbastanza rapidamente, in termini “egoistici”, ma non ha modificato affatto lo spirito a-sociale della speculazione che ancora domina in quel paese; le altre vittime nel mondo non si sono ancora del tutto riprese: la politica, società per società, paese per paese, se ne sarà capace, se si sarà preparata per tempo (aspetto che vedo carente nel nostro Paese), dovrà attivarsi con modalità mirate all’obiettivo che deciderà di darsi (anche quest’aspetto lo vedo carente …), per gestire i cambiamenti indotti dalle fratture di continuità in nuovi equilibri sociali. Altrimenti è probabile sarà anarchia.

Questo meccanismo “per processi” mi è noto, ho vissuto personalmente un altro “primum vivere”, negli anni ‘60, fra Ancona e Milano, perché è stata proprio la spinta del cambiamento dello scenario economico da “età del miracolo economico” a inizio della crisi sociale nella seconda metà degli anni ’60 (ma non solo quella) a farmi emigrare a nord ove potevo cogliere opportunità non presenti nelle Marche. In Ancona partecipavo al Movimento studenti, scrivendo le mie osservazioni su Il Brogliaccio, movimento e giornale aperti al cambiamento ed all’innovazione, redatto da giovani privi di un metodo interpretativo se non quello di discutere di tutto quello “che secondo loro non andava per il verso giusto” (= i disagi), senza un’idea precisa di cosa fosse “giusto” e cosa si potesse fare di “diverso”, senza una “ideologia” di riferimento (e questo era l’aspetto positivo: si erano liberati dai vincoli di appartenenza ideologico-politica che ingessava la società di quel tempo in tifoserie contrapposte o in indifferenza alla politica); ma, anche per questo, privi di una “chiave di lettura” di dove si stesse o si dovesse andare. Anzi rifiutavano “per principio di libertà e di responsabilità” di aderire a qualsiasi ideologia (anch’essa una ideologia). Andavano dicendo “… è preferibile sbagliare da soli, assumendosi la responsabilità dell’eventuale errore e attrezzarsi per cercare di capire perché, per non replicare l’errore”. Evidentemente non avevano un buon ricordo di come, per delega fideistica, era stato governato il Paese prima e dopo la Guerra. In qualche modo era un principio giusto, ma sarebbe risultato efficace ove fosse stato codificato in un metodo operativo, con qualcuno incaricato del controllo, come stava avvenendo da alcuni decenni in Giappone, con una nuova ideologia industriale, che prenderà il nome di “Toyota Way.

In Ancona, all’epoca, non si aveva sufficiente conoscenza di quell’esperienza per aderirvi o contestarla, nemmeno di quella Olivetti o le lezioni che pervenivano dall’ambiente de il Mulino di Bologna, o il nuovo approccio laico di Scienze Politiche e Sociali della Cesare Alfieri di Firenze ove insegnavano Spadolini e Sartori. Perché in Ancona, all’epoca, ancora non c’era una qualche Università che s’occupasse della diffusione culturale. Così si rifiutava quanto già esistente ma non si sapeva cosa accettare di nuovo, per cui ne derivava uno “scontento” di fondo, come succede ancora oggi, mi sembra, scontento allargato a tutto il Paese. Allora, nella società dorica, i giovani “ribelli” erano minoranza e, per quanto ribelli, non adottarono mai metodi di protesta violenti. La maggioranza della società era culturalmente tutta rivolta a preservare le tradizioni. A Destra, al Centro che tendeva più a destra che a sinistra, nella latitanza ambigua del socialismo (almeno in Ancona il socialismo non era rappresentato da alcuna figura di un qualche rilievo). Era di natura conservatrice perfino la “dottrina” della sinistra comunista che cercava in quel tempo di resistere alla Rivoluzione culturale cinese. Velleitaria quella dell’utopia radicare. Poco credibile, per quanto colta e anticipatrice nei tempi della politica, quella di estrema minoranza mazziniana/repubblicana. Ormai solo folcloristica quella anarchica, rappresentata ad Ancona dal Circolo del Pinocchio, ove vigeva la regola “ciascuno dona quel che può, ciascuno prende secondo necessità”, che fece chiudere presto quell’esperimento comunitario perché le necessità (soprattutto nella mescita del vino) superavano di gran lunga le possibilità del dare: cultura ribellistica che pure ad Ancona vantava una storia illustre tanto da dedicare una piazza ad un anarchico, l’unica in Italia, il Malatesta, fin da epoca monarchica (che è tutto dire!).

Erano tutte “culture in sfinimento” … in quegli anni ’60 guardavano più al passato che a progettare il futuro, coglievano quel che veniva, gli ambienti governativi s’affidavano al clientelismo-paternalistico (il secondo motivo per la mia emigrazione a nord, non volevo dipendere dal favore di nessuno …), ma anche perché (terzo motivo) dopo la laurea a Firenze, il ritorno ad Ancona lo avevo vissuto come il precipitare in un “ghetto ideologico” clerico-fascista che sembrava aver ripreso forza dopo l’esaurimento dell’entusiasmo per Papa Giovanni e gli insegnamenti del vaticano II: in uno degli ultimi numeri de Il Brogliaccio che scrissi ed impaginai quasi tutto io, ricordo, con l’ironia formidabile dei disegni di Massimo Gobbi, si ritenne opportuno dedicarlo alla critica del clerico-fascismo che ancora dominava nell’Ancona “bene”, facendo non poco borbottare la Curia dorica.

Confesso oggi di non aver indagato allora con metodo sui “perché?” di quelle inadeguatezze e di quei ritardi, prendendo atto dei “sintomi” del disagio, che Massimo Papini ha sintetizzato mezzo secolo dopo nel titolo dei suoi ricordi “Tra Dylan e Marx” (). Per quanto quella nostra esperienza “contro” andasse inquadrata in un processo di cambiamento di un micro-cosmo cittadino, erano comunque assetti sociali in crisi che derivavano dallo sviluppo del “neo-fordismo” che stava cambiando gli assetti sociali tradizionali, un fenomeno nazionale, anzi continentale: era la conseguenza della III Rivoluzione industriale della seconda metà del XX secolo.

Quella stagione era iniziata alla fine della seconda Guerra mondiale, e all’inizio degli anni ‘60, si era ancora nel così detto “miracolo economico”, anche se iniziavano ad emergere le insufficienze, le disuguaglianze, i disagi e le contraddizioni che quel modello di sviluppo stata producendo per gli aspetti sociali non opportunamente gestiti dalla politica. All’epoca non mi sono interrogato a sufficienza su cosa avesse prodotto quelle esigenze di cambiamento sociale che portarono all’esplosione del ’68, non ero più in Ancona, in un periodo che, comunque, era di benessere crescente. Avevo solo notato che c’era in atto una polarizzazione della ricchezza con alcuni neo-ricchi industriali, un conseguente cambiamento nelle gerarchie sociali di vertice, ma anche culturali che iniziavano a liberarsi sia della tradizione fascista anteguerra sia di quella democristiana (andreottiana piuttosto) del primo dopoguerra, certamente perché il ceto più avvertito che aveva e andava guidando ancora quella città (e penso alle resistenze alle quali dovette far fronte Trifogli, nel suo riformismo alla Maritain) risentiva del persistere di quella cultura clerico-fascista della classe sociale dominante, anche se era per definizione cultura perdente, senza prospettive, poteva resistere, ma non vincere in una nuova stagione politica. Quella società antistorica era concentrata soprattutto nel “quartiere bene” del Sacro Cuore, ed esprimeva anche fisicamente, nelle apparenze, nei costumi e consumi, quella cultura egoistica alto-borghese, in ritardo anch’essa all’interno del dibattito religioso promosso dal Concilio Vaticano II; mentre ampi strati sociali che erano stati benestanti, non godevano della ripresa produttiva industriale; altri che benestanti non erano mai stati non trovavano più impieghi, cadevano nel “pauperismo” e dovevano emigrare. Il disagio era evidente … Ancora più grave quella divaricazione e rimescolamento sociale nel sud del nostro Paese, i cui emigranti, dopo aver affollato le miniere del Belgio e della Germania e, quindi l’America meridionale, stavano riversandosi nel nord lombardo e piemontese del boom dell’industrializzazione. Il disagio sociale a fronte di quei cambiamenti era generalizzato. Ricordo i cartelli a Milano: “non si affitta ai meridionali”, molto simili a quelli che colpiscono oggi “gli stranieri”, a Torino andava anche peggio … Una minoranza iniziò a soffiare su quei disagi.

Note:

(1 – L’idea Toyota era incentrata su 14 principi ed è diventata nel tempo una filosofia industriale che va oltre l’industria, applicando il principio di “sociabilità contrattata” con un processo di “miglioramento continuo”, traguardando obiettivi di sfida di lungo termine, crescere dei leaders, nel rispetto di partner e fornitori (sociabilità organizzata) e tanto altro … è il segreto (si fa per dire) di quella nuova sociabilità, anche nel mondo dell’industria. Olivetti ci aveva provato ad offrire il modello di un nuovo umanesimo industriale (personalmente avevo redatto il Manuale di gestione nel 1994); anche l’ambiente de il Mulino aveva affrontato questo tema, ma si sono persi strada facendo. Tratterò e illustrerò nella prossima scheda la trasposizione di questo “metodo” alle “relazioni sociali”, che stabilisce l’organizzazione base per raggiungere un obiettivo predefinito col metodo dell’«approccio per processi» e la sua ottimizzazione continua col metodo «impariamo dagli errori», metodi applicabili anche nelle relazioni sociali.
2 – Massimo Papini – Tra Dylan e Marx. Gli anni Sessanta de giovani – affinità elettive, Ancona. 2019 )

Sorsero in tal modo molte tipologie di “ribellismo” sia alle regole sociali del passato sia a quelle indotte da quei cambiamenti, che disarticolavano la stratificazione sociale tradizionale. Quell’agitarsi nello scontento sfociò nei giustificazionismi rivoluzionari, che poi fallirono, tutti, a causa da un lato del ribellismo senza prospettive delle “Brigate”, sia “Rosse” sia “Nere”, del velleitarismo di alcuni intellettuali (ci ricordiamo di cosa si andava elaborando nella facoltà di Sociologia dell’Università di Trento o alla Statale di Milano?), dall’altro dal tentativo antistorico del ritorno al modello autoritario-paternalistico, ma anche clientelare ed elitario gestito dall’alto, fideistico, rappresentato dal proselitismo di “Comunione e Liberazione”, erede nel governo di Milano del clientelismo del socialismo craxiano.

Avevo solo notato dai comportamenti dei giovani di Ancona che il ribellismo nasceva dal rifiuto del “prima”. Avevo colto i sintomi, incapace di sviluppare una qualche prognosi. Dopo quella esperienza che conclusi da spettatore nella Milano della guerriglia e degli attentati, dopo la svolta di Piazza Fontana, si perse completamente la bussola: fu il crollo del dominio politico dei democristiani, la svolta del primo governo Spadolini, un’economia tutta da dover ricostruire.

Ho notato poi che in tempi relativamente lunghi, decenni, oggi come allora, si sono innestati “cambiamenti” che vanno a modificare la struttura sociale del Paese, evidenti dal sorgere dei nuovi “disagi”, e c’è sempre chi ha motivi per ribellarsi … mi è servito per riflettere sui corsi e ricorsi storici.

Gli anni in cui vidi il fondo più estremo e irresponsabile di quella crisi furono quelli dell’ultimo governo Andreotti (1979) che durò pochissimo tanto era diventata impopolare la politica clientelare democristiana. La reazione portò alla formazione dei primi governi “laici” di Spadolini (’81-’82) e Craxi (‘82-‘87), che, nella seconda parte degli anni ’80, consolidato il potere con l’alleanza “a destra”, Craxi gestì con la crisi dell’economia nella logica della “Milano da bere”, con i soldi che non c’erano, cercando di far riavviare l’economia “coi consumi”, facendo debiti. Oggi mi pare di rivedere replicati gli conquassi di quella stagione con gli emuli né di sinistra, né di destra della “Piattaforma Rousseau”.

Dall’88, con gli sprechi e il fallimento delle iniziative delle industrie delle Partecipazione Statali, che da feudi di clientelismo DC divennero feudi del clientelismo PSI, che portò al potere una classe dirigente talmente ignorante da riuscire a distruggere anche quei ristretti settori che ancora avevano i bilanci attivi. Fu scelta politica disastrosa, la stiamo pagando ancora oggi.

Mi incuriosì quella degenerazione in atto e mi portò a ricercare quali radici avesse tradito quel socialismo che appariva del tutto a-sociale, che interpretava la sociabilità () come clientelismo per conquistare e rimanere al potere: così ho scoperto che non era spetto nuovo, non c’è un solo socialismo nella storia, tanto che venivano distinti dai comunisti indicandoli al plurale “i socialismi democratici”, fin dalla seconda metà del XIX secolo, per rappresentare politicamente il ribellismo populista, per lo più inconcludente e minoritario. In quel lontano “ieri” democrazie e socialismi sono nati per sfinimento dei modelli di governo assolutistico-nobiliari. Essi stessi erano in sfinimento un secolo dopo …

Oggi, come allora, è in atto l’ennesimo cambiamento radicale. Mi chiedo cosa fare di diverso. L’innovazione dell’economia industriale in un mercato diventato nel frattempo globale, precede nella sua logica o è la conseguenza del disagio? In realtà da quegli anni ‘60 e poi dall’inizio della decadenza degli anni ’70-’80 la nostra economia nazionale ha iniziato a perdere colpi e ad indebitarsi, a regredire in relazione ad altre economie maggiormente innovative. È questo il motivo che genera il disagio? In molti settori non siamo stati più competitivi … in altri ove primeggiavamo, molti marchi sono oggi di proprietà straniera, non siamo riusciti a realizzare la continuità … manteniamo una qualche competitività da “terzisti”, ma con prospettive non dipendenti da noi, mantenendo stentatamente in vita strutture produttive fragili, vecchie, troppo piccole e poco reattive alle necessità dell’innovazione …

I movimenti pre-socialisti sorsero “contro” il sistema dell’assolutismo nobiliare prima del 1848, non ancora partiti politici con una visione del “da farsi”. Furono all’epoca anche loro risposte ribellistiche a bisogni popolari anche elementari: le reiterate “rivolte per il pane” – l’assalto ai formi narrato da Manzoni – che ebbero un picco nel 1730. Da lì tante altre rivolte, man mano che quel “popolo” prendeva coscienza dei suoi disagi, man mano che misurava le distanze fra le classi sociali, man mano che andava acquisendo consapevolezze degli obiettivi possibili e trasformava la protesta per rabbia in protesta rivoluzionaria. Poi interveniva una qualche politica per reprimere o gestire il cambiamento, come ha magistralmente ricostruito George Rudé (). C’è di più. Quel ribellismo non solo nasceva dal “pauperismo”, ma risentiva anche di quelle che George Lichtheim () ha battezzato “illusioni ereditate” prodotte nel corso di più di un secolo da quel movimento di aristocratica libertà di pensiero, che prende il nome di “illuminismo”, diviso in tante correnti, degli egualitari, utopisti, sansimoniani, col pensiero di Rousseau che traghetta lo scontento verso i movimenti “populisti”, poi i cooperativisti, gli owenisti, i pre-socialisti appunto, gli anarchici, i radicali ecc. che hanno affrontato in termini critici ed innovativi tanti aspetti della società nobiliare, ma sono riusciti a costruire poco o nulla.

Note:

( 3. – Il fatto, la condizione di essere sociabile: l’attitudine a vivere in società, e il complesso degli elementi e dei gruppi di una determinata società e delle loro relazioni. Anche, le forme concrete nelle quali tale attitudine si manifesta (gruppo, comunità, massa, ecc.), orientata da diversi tipi di bisogno e di interesse; è termine preferito a socialità in quanto meno valutativo, e ad associazione in quanto comprende tanto i rapporti di avvicinamento tra diversi soggetti sociali (definiti come associazioni) quanto quelli, come la guerra, i conflitti, ecc., che comportano distanziamento o ostilità (treccani.it).

Mi chiedo: dov’è, oggi, quel piedistallo culturale sul quale poter basare una qualche ricostruzione del tessuto sociale, forse nell’attuale “Piattaforma Rousseau” che assomiglia per molti aspetti ad una loggia massonica che trama ed intriga nell’ombra? Fra le “illusioni ereditate” all’epoca di Rousseau anche il peso non risolto del pauperismo, i disagi popolari, le insufficienze politiche, economiche e sociali nel provvedervi, una cultura “contro” che non sa ancora “come fare” e non tiene in alcun conto che deve misurarsi con la logica ancora trionfante della contrapposizione fra imperi e della concorrenza nelle conquiste neo-coloniali. È la logica che favorisce la lenta ma violenta emersione del “disagio” più generale ove il più delle volte non s’è individuata la soluzione al precedente disagio. Un “populismo che spinge dal basso” per cambiare, senza sapere cosa, come e perché? Anche questa esperienza la stiamo replicando oggi come i socialismi fra XIX e XX secolo?

All’epoca la svolta partì dalla Rivoluzione () industriale in Inghilterra nella seconda metà del XVIII secolo, che ha iniziato a cambiare gli apporti all’economia. In precedenza quasi esclusivamente agricola, è stata l’occasione scatenante la prima “frattura” di quella logica politico/sociale dall’alto verso il basso, facendo emergere dal basso la prima borghesia. Ma il disagio del substrato sociale era andato formandosi da molto tempo prima di quella rivoluzione. La seconda fu la Rivoluzione Americana per l’indipendenza delle colonie inglesi e francesi in nome del primo nazionalismo. Quindi la Rivoluzione francese, propagandata in Europa attraverso l’Imperialismo napoleonico. Il 1814 stabilì un “punto e a capo”. Ma quell’«a capo» non poteva essere un ritorno al passato, ma non era ancora pronto un modello nuovo per il futuro, quindi fu “disagio” fino alla rivoluzione del 1848, quando Marx e Engels proposero l’alleanza fra il nuovo, il proletariato e la nuova borghesia industriale, per andare oltre il vecchio mondo rispondente alla logica autoritaria, nobiliare, ereditaria. Un patto scritto nel Manifesto, e mai realmente applicato, sconfessato poi da Lenin con la “dittatura del partito” in luogo della “democrazia del proletariato”: di lì il diverso disagio che nel tempo affossò il comunismo …

  • La prima rivoluzione si è potuta realizzare allora in Gran Bretagna (i primi eventi significativi in Scozia), perché quella società aveva già messo in crisi l’assolutismo dinastico, come si poteva fare all’epoca, con lo spargimento di sangue, anche se non era ancora riuscita a liberarsi della supremazia nobiliare. Aveva stabilito una Monarchia elettiva, un Parlamento di Pari, una Costituzione per regolare i rapporti sociali, una delle prime idee di Nazione. Era cioè il frutto dell’innovazione riformistica: processo che dall’assolutismo andava verso la democrazia.
  • Poi venne la II Rivoluzione industriale, a fine XIX secolo, indotta dalle innovazioni del “Taylorismo”, dell’efficienza “scientifica” del modo di produrre dell’industria, che andò generando la concorrenza critica del “come fare”, nella logica della “migliore pratica”. Produsse una reazione “social-comunista” per lo sviluppo abnorme dei disagi da sfruttamento del “proletario di fabbrica” in lotta con un diverso “assolutismo borghese”. L’età del taylorismo era egoistica avventura di arricchimento che non teneva in alcun conto la sociabilità dei risultati, anche se, sempre per reazione, emerse anche un diverso modello solidaristico, che dopo l’indimenticabile racconto di quel disagio () fece grande l’America coll’idea del “New Deal” ().
  • Poi la III Rivoluzione del “Fordismo” (fra le due guerre mondiali) e del “neo-Fordismo” (dopo la seconda), orientata alla standardizzazione dell’organizzazione produttiva progettata in funzione della richiesta dei mercati, certo ancora poco sensibile agli aspetti di sociabilità. Quella che iniziò ad entrare in crisi appunto negli anni ’60, quando anche il comunismo stava sfinendo nell’a-sociale dell’imperialismo sovietico.

Ma non era sempre stato così? Fin dalle prime invasioni della nostra penisola in epoca preistorica: cercare di superare un qualche disagio per vivere meglio? Non sarà ancora così ora che sta avviandosi la IV Rivoluzione industriale?

Note:

(4 – George Rudé – Dalla Bastiglia al Termidoro – Editori Riuniti, Roma 1966.
5 – George Lichtheim – Le origini del socialismo – il Mulino, Bologna 1970.
6 – Movimento organizzato e violento col quale si instaura un nuovo ordine sociale o politico. Anche: ogni processo storico, anche graduale, che finisca per determinare il mutamento di un assetto sociale o politico. Per esempi: Rivoluzione culturale, l'indirizzo e il relativo movimento politico-sociale sviluppatosi in seno al comunismo cinese tra il 1965 e il 1971 sotto la spinta di Mao Zedong, con l'obiettivo di rinnovare profondamente la cultura eliminando ogni residuo borghese, ma anche di forzare il cammino del popolo cinese in direzione dell'egualitarismo.
7 – Cfr. i romanzi di John Steinbeck, in particolare Furore. Devo all’United States Information Service, che finanziava la pubblicazione delle opere di letteratura americana, inglese, tedesca, anche italiana ed alla Biblioteca Benincasa di Ancona che ne gestiva il prestito, la mia seconda formazione culturale in epoca studentesca (la prima l’avevo sviluppata grazie alla mia famiglia che per qualche tempo gestì una libreria) su un mondo diverso da quello anconetano.
8 – Con New Deal («nuovo corso» o letteralmente «nuovo affare») si intende il piano di riforme economiche e sociali promosso dal presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt fra il 1933 e il 1937, allo scopo di risollevare il Paese dalla grande depressione che aveva travolto gli Stati Uniti d'America a partire dal 1929 (il «giovedì nero»), l’esplodere della crisi indotta dall’invecchiamento del modello Industry 2.0.)

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